Cosa accade tra cliente e psicologo.
Iniziativa personale o invio da terzi?
Frequentemente è un medico che consiglia di sottoporsi a una valutazione psicologica, altre volte la persona si rivolge a noi sotto pressione dei parenti oppure dietro consiglio di un conoscente oppure più direttamente tramite le informazioni dell’Albo, gli elenchi telefonici, Internet o altre forme di pubblicità. In alcuni casi il paziente chiede aiuto da solo e in solitudine.
Questi canali di invio sono legati alle aspettative della persona, alla motivazione a essere aiutato e a una prima idea della rete sociale e comunicativa naturale che sostiene la persona in questo percorso di vita.
Se a contattarci non è il diretto interessato, ma un terzo che vuole controllare la versione dei fatti, oppure che si fa carico di una “delega” di colui che ha bisogno di aiuto, preferiamo sempre essere contattati dal diretto interessato. Ciò per una valutazione di una motivazione valida, per evitare che nascano impressioni infondate nel diretto interessato riguardo alle informazioni date o ricevute dal “delegato”, e per non inquinare la nostra attenzione con preconcetti e pregiudizi, dai quali dovremo essere liberi. Tutto ciò ad eccezione dei casi in cui la gravità del caso o una serie di ragioni valide impediscano un contatto diretto. In ogni caso, dev’essere chiara la nostra indisponibilià a colludere con tentativi di violazione della riservatezza di un genitore, un partner o qualsiasi “terzo” che abbia concorso alla richiesta d’aiuto, salvo consenso del cliente diretto.
Accoglienza.
Il colloquio non è un interrogatorio e il punto fondamentale dell’accoglienza è permettere alla persona di organizzare liberamente e spontaneamente il modo di esprimersi e di relazionarsi che gli è caratteristico (es. chiederemo: “Qual è il motivo che l’ha indotta a venire qui da me?”, “cosa desidera portarmi?”). Le primissime parole pronunciate riguardo ai propri disagi sono quanto di più prezioso e importante possiamo conoscere di chi ci sta di fronte. Può essere anche utile accettare che la persona parta da un argomento apparentemente di nessuna importanza. Questo è il modo migliore di creare le precondizioni di un’anamnesi spontanea.
Può accadere anche che vengano richiesti “consigli e pareri immediati” su come comportarsi, cosa fare, come pensare…”. In questo caso rifletteremo concretamente, dovremo rispettare l’individualità della persona e anche sopportare l’impotenza sotto la pressione delle richieste immediate della vita: staremo a fianco a lei per aiutarla a decidere autonomamente e al meglio, facendo ordine nella storia personale, guardando uno dei suoi obiettivi da più punti di vista.
Voglia di piangere.
Spontanee e liberatorie reazioni emotive intense come il pianto, possono denotare il nostro successo nel far sentire “accolto” con intensa partecipazione il contenuto mentale della persona. Il giudizio è quanto di più lontano esiste nel colloquio psicologico. Il pianto a volte è un punto di arrivo terapeutico molto delicato e utile. E’ un bene prezioso che ci riporta all’autenticità della sofferenza umana e al dono di condividerla con noi psicologi.
Il cliente, se e quando lo vuole, può permettersi ” il lusso” di comunicarci liberamente ciò che desidera. E’ sempre utile ricordare esplicitamente e con precisione che “Ciò che ci confida è protetto dal segreto”. A tale proposito è indispensabile notare che colludere con la segretezza estrema di chi si rivolge a noi può rappresentare il risultato di un nostro pregiudizio disfunzionale relativo alla diversità e al malessere mentale che può alimentare il senso di vergogna e di inadeguatezza di chi abbiamo di fronte. Affrontare con naturalità e senza tabù gli argomenti dell’altro è già uno strumento iniziale che rassicura il cliente sul fatto di non essere la pecora nera della situazione, il colpevole, il diverso, una persona che esprime scandalo, fallimento, malattia. I tempi della mente ci costringono a gestire il nostro e l’altrui…
…silenzio.
E’ opportuno accogliere l’ansia che deriva dai silenzi e rimandare a un momento successivo le richieste di precisazioni e chiarimenti, annotando mentalmente le cose sulle quali desideriamo ritornare. E’ possibile dare continuità e fiducia al dialogo con il nostro interesse e la nostra disponibilità e competenza attenta. Noi psicologi siamo persone che non si meravigliano della sofferenza e non la giudicano, ma la curano.
Dare libertà al cliente che si racconta può significare innanzitutto liberare la nostra mente: far silenzio mentale in noi significa non interpretare, non classificare, non giudicare. Neutralità non significa oblio di se stessi ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi. Dobbiamo incontrare la persona nella sua realtà nuda, umana, sofferente, incontrandola non con le nostre parole sulle sue parole, evitando di incontrare noi stessi o un pallido riflesso di noi stessi. Allo scopo di lasciare libero il campo a chi arde dalla voglia di essere ascoltato riguardo a faccende che, molto probabilmente, non ha avuto l’opportunità di raccontare o comprendere altrove e con altri.
…empatia.
Come capire se siamo in relazione empatica con l’altro? Vi risparmierò definizioni tecniche per darvi delle coordinate che possano essere operativamente utili.
L’esperienza empatica è un’esperienza che produce benessere. Ascoltare eventuali “onde di risonanza” proprio lì nello stomaco o a fior di pelle, che nel silenzio dei nostri pensieri ci comunicano: “ciao compagno di avventura su questa Terra, credo di aver proprio capito cosa vuoi dire…”. La si inizia a verificare quando ci si accorge che si riesce mentalmente ad anticipare il corso dell’elaborazione spontanea dell’altro.
La comprensione empatica richiede il possesso della prospettiva dell’altro. Deve solo sfiorarci ‘idea che non condividiamo un comportamento o un pensiero: se una persona pensa o ha fatto così è perché è meravigliosamente diversa dagli altri 5.999.999.999 esseri umani sul pianeta.
L’empatia implica anche la capacità di utilizzare informazioni che riguardano noi stessi per cercare di conoscere un’altra persona e sintonizzarci con i suoi peculiari schemi mentali. Noi psicologi non abbiamo bisogno di metterci nei panni dell’altro per capire cosa avremmo pensato o fatto noi, ma per intuire come ci sentiremmo se avessimo deciso di adottare proprio quella sua soluzione così unica e particolare al problema: osservare con l’altro.
Dobbiamo saper entrare e poi uscire dall’empatia, mantenendo la condizione del “come se” e separarci – non con-fonderci – all’altro. Noi psicologi, al contrario di tanti conoscenti che il cliente avrà coinvolto nel suo racconto, diffidiamo sempre delle nostre opinioni basate su nostri personali sentimenti intensi (positivi o negativi); ci sono buone probabilità che tali opinioni siano dettate dai nostri bisogni piuttosto che da quelli dell’interlocutore. Che ha diritto al campo, alla libertà.
Esiste un’empatia che non aiuta ed è quella non dosata, che può diventare intrusiva e rispondere a desideri più o meno consapevoli di sedurre l’altro, di manipolarlo o gestirne i bisogni. Le proprie capacità empatiche sono influenzate dalle esperienze empatiche ricevute in passato, dalla motivazione ad empatizzare e dallo stato emotivo e cognitivo al momento del colloquio. Non solo dalla formazione scientifica ricevuta. Lo psicologo è quindi, innanzitutto, una persona con un’altra persona dinanzi.